Dante e il mito delle origini di Mantova

Nel XX Canto dell’Inferno Dante, nel suo viaggio sotto la guida di Virgilio, giunge alla IV Bolgia del VIII Cerchio. Qui si imbatte in una nuova pena, quella “de l’indovini” e “de l’incantatori”, il cui pianto bagna il fondo della fossa lungo la quale essi vagano per l’eternità. Osservando la scena dall’alto, verso il basso dell’avvallamento, Dante racconta di aver visto una schiera di dannati camminare lentamente, come in una processione. Erano in silenzio e piangevano. Abbassando lo sguardo verso le figure più vicine, scorge un dettaglio inquietante che lo fa trasalire: le figure umane sono stravolte e le loro teste sono orribilmente torte all’indietro, in modo tale che essi, mentre camminano in avanti, hanno il viso che guarda nel senso opposto. Dante rimane sconvolto dalla visione e, quando vede le lacrime dei dannati scendere dai volti e bagnare non il petto ma le rispettive schiene, non riesce a trattenere il pianto. Virgilio lo rimprovera, perché egli non deve avere pietà per queste anime scellerate. La guida gli racconta la storia degli indovini che riconosce nella folla dei dannati in lenta processione. Tra questi c’è anche Manto, figlia di Tiresia: la sua storia ha a che fare con le origini mitiche della città in cui nacque Virgilio, ovvero Mantova.

"Manto fu, che cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu’ io;
onde un poco mi piace che m’ascolte" (vv. 55-57).

Med. Palat. 75 c. 38r cut low
Giovanni Stradano, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ms. Med.Palat. 75, f. 38r. Su concessione del MiC

La pena che Dante ci descrive è esemplare nella sua ferrea logica di contrappasso: la tracotanza degli indovini è di voler vedere più di ciò che agli uomini è consentito. Tracimare dunque nel territorio del divino. La loro pena è camminare eternamente in avanti senza poter più vedere nemmeno ciò che è sotto i loro passi ma con lo sguardo forzatamente rivolto dalla parte contraria al loro moto. Tra la folla dei dannati Virgilio indica a Dante la figura di Tiresia e della figlia Manto, che girovagò per il mondo e per l’Italia, arrivando infine nel punto in cui il Mincio, nel suo alto corso, incontra un avvallamento, creando una palude. Qui la giovane vide una terra incolta e disabitata che emergeva tra le acque ferme e vi si stabilì per sfuggire ogni contatto umano e coltivare le sue arti magiche coi suoi servi. Alla sua morte, fu seppellita in quel luogo dove fu in seguito costruita una città chiamata Mantova, dal nome dell’indovina. Virgilio, dopo aver accennato alla presa del potere dei Bonacolsi (fatto che accadde quando Dante era fanciullo), conclude dicendo che questa è la vera origine di Mantova.

Il mito della fondazione della città che fu dei Gonzaga è celebrato nei grandi riquadri dipinti nella monumentale Sala di Manto presso l’Appartamento Grande di Castello di Palazzo Ducale, risalenti agli anni settanta del Cinquecento. Le scene, ispirate alla cultura classica, sono in parte coerenti con il racconto dantesco. Secondo quanto dipinto da Lorenzo Costa il Giovane su ideazione di Giovanni Battista Bertani (all’epoca prefetto delle fabbriche gonzaghesche), fu Ocno, figlio di Manto, a fondare la città di Mantova in omaggio alla madre.

Salone di Manto low

Per celebrare la ricorrenza dei settecento anni dalla morte di Dante, Palazzo Ducale ha in programma un progetto espositivo intitolato “Dante e la cultura del Trecento a Mantova”. L’iniziativa, prevista per l’autunno di quest’anno, intende ricostruire la cultura letteraria e figurativa dei primi del Trecento, i decenni che videro al potere i Bonacolsi e successivamente i Gonzaga. Fu una fase di grande importanza per l’affermazione della città di Mantova nel contesto delle signorie nord-italiane. Dante, sempre nel ventesimo canto dell’Inferno, accenna alle vicende politiche dell’epoca che portarono con l’inganno lo spregiudicato Pinamonte Bonacolsi all’apice del potere in città, esiliando con la complicità dei Casalodi, molte delle famiglie a lui avverse.

Ecco i suoi versi:

“Già fuor le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse” (vv. 94-96).

 

 

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