Un intervento di fine Settecento

I nove arazzi, destinati da Ercole Gonzaga alla basilica di Santa Barbara, nel corso del Settecento erano in cattivo stato di conservazione, tanto che nel 1776 il sovrintendente del Palazzo Ducale, Antonio Maria Romenati, poté averli dal Capitolo di Santa Barbara in cambio di stoffe pregiate, ma di nessun pregio artistico.

Le Storie dei santi Pietro e Paolo furono quindi trasferite in Palazzo Ducale ma solo nel 1779 iniziò il restauro, curato da Antonia Carrè Lorenzini, che ne ebbe dapprima due per prova e intervenne poi anche sugli altri sette. La Lorenzini, moglie di un magazziniere del Palazzo, operò dirigendo sotto di sé non meno di dodici giovani ricamatrici, a cui distribuì il lavoro in base alle loro capacità. Il lavoro di ricamo era storicamente uno dei pochi in cui fu sempre riconosciuto il valore delle donne e così avvenne anche in questo caso. I restauri durarono fino a luglio 1781; la Lorenzini lavorò sotto la direzione del cremonese Giuseppe Bottani, allora direttore della mantovana Accademia di Belle Arti, si meritò grandi lodi e persino un sonetto encomiastico, scritto dal conte Luigi Bulgarini e pubblicato a Piacenza nel 1780. Così principiava la poesia in onore della Lorenzini: «Forse l’Ago in tua mano Aracne pose, | O lo stile, Carrè, ti diede Apelle?».

Per accogliere i preziosi manufatti, gli artisti dell’Accademia mantovana si impegnano nella creazione di un adeguato ornato, di pitture su tela, stucchi, soffitti lignei dipinti e altro. Quattro ampie stanze della Corte Vecchia – anticamente facenti parte dell’appartamento del duca Guglielmo Gonzaga – furono appositamente trasformate, grazie a un progetto architettonico di Paolo Pozzo.

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In principio, per dirigere i lavori era stato interpellato proprio il già celebre Bottani, il quale tuttavia pare rimanesse escluso per via dell’ostilità mostrata dal Romenati. Si tentò allora di coinvolgere il milanese Andrea Appiani, coadiuvato dal mantovano Felice Campi; Appiani, anch’egli discretamente famoso (nel 1804 sarebbe stato nominato primo pittore del re d’Italia), nel 1780 era giunto a Mantova in vista dei restauri di Palazzo Te. Tuttavia, anche la contrattazione con Appiani fallì e alla fine l’impresa, la prima campagna decorativa di gusto neoclassico in Palazzo Ducale, fu affidata al solo Felice Campi. L’appartamento rimane oggi perfettamente integro e ci mostra esattamente quanto sortì dal lavoro di Campi.
Egli eseguì una serie di dipinti a tempera «su tela cordolata», a imitazione degli arazzi, copiando per giunta i soggetti dei tessuti della Scuola Nuova. Alle residue decorazioni contribuirono principalmente il ticinese Stanislao Somazzi (stucchi) e il mantovano Giovan Battista Marconi (ornati pittorici).

A complemento degli arazzi, furono realizzati decori filologicamente ispirati a Raffaello. Campi dipinse i suoi finti arazzi copiando le tappezzerie della sala del Concistoro in Vaticano, ossia gli arazzi della serie raffaellesca detta appunto della Scuola Nuova. Anche altre fonti furono usate come ispirazione per l’appartamento degli Arazzi: i decori delle Logge Vaticane e le bordure degli arazzi vaticani, sempre di Raffaello. I soffitti a cassettoni furono costruiti con la tecnica dell’incannucciato, ossia con stuoie di canne palustri intrecciate, su un telaio ligneo; i pavimenti furono decorati in “battuto veneziano”. L’omogenea ispirazione raffaellesca dell’appartamento, nato per ospitare i meravigliosi tessuti cinquecenteschi, è tradita solo dal ricorso, in qualche dettaglio, ai decori di Giulio Romano in Palazzo Te. Gli arazzi furono quindi esposti fissati su telai, come fossero dei giganteschi dipinti su tela, in un allestimento concepito come un solenne omaggio all’Urbinate. (SL)

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